LO SGUARDO DENTRO IL SOGNO  (SULL’OPERA APOCRIFA DI ELIO GRAZIOLI)

Ho scritto un testo per raccontare il lavoro che Elio Grazioli presenta nella mostra “Primo sogno”, usando e parassitando anche le sue parole[1]. La mostra è composta di alcune fotografie e video realizzati da Elio, un ritratto di Elio su immagine fornita da Elio commissionato a Dario Bellini, un video con i video di Elio, rivisti e montati da Aurelio Andrighetto, infine un’altra fotografia di Elio ritoccata ad acquerello. Un progetto espositivo che ci parla di slittamenti e convergenze, dualità e collaborazioni, identità e “opera aperta[2]”, nel senso che ne dà Luigi Ghirri quando scrive di “un sottile filo che leghi autobiografia ed esterno”… “perché ogni singolo lavoro si apre su di uno spazio elastico, non si esaurisce in un’identità misurabile, ma sconfina, un continuo dialogo tra quello terminato e quello che ci sarà”.

Qui vorrei concentrarmi sulle fotografie e sui video di Elio.

Parole e frasi, frammenti di pensieri e riflessioni, che slittano di lato e si rendono conto di aprirsi a delle nuove possibilità, così che ne deriva quello che Krauss chiama un effetto collage[3], con parole che si rinnovano nella loro significanza e si rigenerano per altri nuovi pensieri nel qui e ora dove la dialettica è già impostata non solo tra coerenza e ricerca, ma tra autoanalisi e “esistenza organica”[4].  Così le parole ritornano a casa nello slittamento infrasottile, per citare un concetto caro a Elio e anche a chi scrive.

Il nostro particolare punto di vista viene dalle arti figurative piuttosto che dalla fotografia stessa[5], eppure in questa mostra di fotografie si tratta, e di brevi video, fotogrammi in movimento dove niente è enfatizzato, tutto è come non può non essere, naturalmente come deve essere per giungere alla visione, come se fosse sempre stato così[6].

In queste immagini aperte, non determinate, pura trascrizione della vita in immagine[7], Elio sembra aprici lo sguardo alla preziosa e felice quotidianità dell’album di famiglia, della storia privata colta senza fronzoli, diretta e vera, a tratti cruda, senza farne un documentario. Anche se ci si può chiedere cosa ci fa l’immagine di una ragnatela in un album di famiglia, o quella di arbusti “bruciati” dalla polvere, che di solito è sul piano e non sulla verticale, ma la sua fotografia è diretta e spoglia, al limite brutale, documentaria nella sua registrazione della realtà[8], immediata e spontanea, anche nei momenti più delicati e intimi, quindi essenzialmente schietta e naturale; l’attenzione si poggia lieve sulle cose più care, come quando si dedica alla nipotina Viola, ritratta a pochi mesi di vita, con tutta la sensualità e l’amore che solo un famigliare può dare, con un ritratto che è un taglio nel continuum, non un momento reale; è reale per l’effetto di realtà che produce nella sua versione in immagine, in registrazione, in linguaggio[9]. Si tratta di video e fotografie a tratti giocati sull’uso amatoriale dello strumento, per un’immagine tutta giocata sulla sfocatura, la scentratura, come fatta per caso[10], piene di rumori, di sbavature, mossi e sfocature che farebbero trasalire qualsiasi cultore del manuale del buon fotografo, ma la cosa non ci interessa qui, ne siamo lontani e siamo consapevoli di cercare altro, perché è il racconto della vita a emergere, non la sua lucida apparenza, la velina, e la delicatezza del sogno quasi (la delicatezza consiste nello stare accanto[11]) e di una vista che si fa appercezione, perché la fotografia altera la modalità dell’esperienza del reale, non solo della sua visione ma anche della sua comprensione[12]. Quella concezione dell’istantanea come abilità visiva del fotografo nel cogliere l’attimo del tutto particolare, l’istante che blocca un’immagine, o meglio la “coincidenza”, unica in quel momento[13]. Il particolare di una ragnatela che emerge dalla luce radente su del fogliame distesa e tessuta in orizzontale, un ritratto della moglie Lorena (un riflesso sul finestrino di un treno), sognante e ambiguamente legato alla natura del fondo, perché raddoppiato, l’increspatura dell’acqua -un’immagine umida- tra i massi di un fiume con il “punctum” (altro concetto che ci piace) nel fogliettino che appare da sotto un sasso, piccola mappa di un possibile tesoro di segni-sogni-segreti,  o il gioco a palla colto in un rallenti che dilata il tempo all’interno di un parco, e ancora la piccola Viola addormentata, e l’ombra della carrozzina sull’acqua, un classico specchio per la formazione delle immagini, come anticipazioni, pre-visioni, per far “vedere il tempo[14]. Non è finzione, è già tutto lì[15]: c’è tutto il movimento della vita che ci sta attorno, e le cose più semplici. Non si tratta di capire, di comprendere una verità comunicata, ma di guardare con i propri occhi[16] le sue rappresentazioni antispettacolari e per nulla glossy, fatte di un niente che è tutto, d’altro canto non è neanche questione di “niente”, se non nel senso che lo avvicina di più a quel “poco” che in fondo è il reale[17].

Per un critico stimato come Elio, attento alla storia delle immagini e alla loro dimoranza nel mondo dell’arte e alla fenomenologia della fotografia, occorre ripartire da qui, dimenticare il noto, pensare in proprio, aprirsi all’inatteso[18], ad esempio valutando con attenzione un catalogo appoggiato su un divano con una stoffa fiorata, l’immagine di un libro d'immagini,  l’immagine di una fotografia in parte nascosta da un foglietto, che sembra lasciato lì a riposare come un segnalibro, in realtà un segnale che descrive il modo di procedere di Elio. L’immagine è semicoperta ma ci svela la metà di una figura e uno sfondo di un paesaggio montano, l’altra pagina quella del testo è leggermente sfocata e la lettura è impedita, ma si nota un leggero tratto a matita che indica lo svolgimento in corso della lettura, una sottolineatura laterale che è un segno del tempo vissuto sul libro. È in francese. C’è tutta la volontà di abbracciare la contingenza, con le parole e con le immagini, e il senso della condizione presente e del vivere al presente, del cercare soluzioni in tempo reale, del procedere e raccogliere in presa diretta[19].   

Il particolare dell’occhio di Moira Orfei, con il retinato specifico del manifesto pubblicitario di un’affissione, e il punto del neo ben inquadrato, ma con il vero punctum che per me sta tutto nel fuori registro che taglia il volto, lo slittamento dei fogli affissi con un leggero scarto, che lo rende peculiare e interessante, e che mi fa pensare al riferimento diretto sulla superficie delle cose che ci fanno da sfondo, che sono lì nel nostro orizzonte ma che non guardiamo mai da vicino, ma velocemente e disattenti, con lo sguardo selettivo e tattile, come ad esempio quello di un Ghirri che era un maestro impareggiabile nel precisare i luoghi nascosti allo sguardo comune, le zone di mistero della realtà, per far si che a questa realtà sia incorporata una certa densità umana[20], ma rimanendo all’interno della forma. Immagini-iscrizioni carichi di rimandi, composte con piccole cose, con gesti lievi e anonimi, con i residui visivi, errori, le smarginature, i fuori registro, le differenze trascurate, le inevitabili diversità sono scarti, sono polvere e sono la molla del suo lavoro[21], segni che si rincorrono, in una copresenza, coappartenenza direbbe Elio, ma non è solo questo. È che più prepotente emerge il discorso del luogo, della delineazione di un posto e dell’estensione del luogo: tutto diventa non solo luogo d’esposizione ma luogo tout court, spazio,  supporto per tracce, impronte che a loro volta non fanno che delimitare un posto dove qualcosa è stato per qualche tempo[22].

È l’orizzontalità della metropoli e dei suoi rapporti[23] di cui l’uomo ne è parte, nel senso più integrato e integrante, “preso” dentro la quadratura[24].

Una parte per il tutto e qualche capovolgimento, l’importante è sempre riuscire a cogliere ciò che non cessa mai di trasformarsi[25]. Così si guarda al mondo con l’occhio dell’arte, la quale arte, non la diciamo spesso proprio un modo diverso di vedere la realtà?[26]

Lascio questo testo con una domanda un po’ autistica, che mi perseguita fin dalla prima lettura, qualche anno fa, del suo stupendo libro “La polvere nell’arte”; ma quante volte ha usato nel testo la parola “polvere”? “Niente” è questo, cioè è tutto, è la vita. Ci torneremo[27].

Intanto fotografia e arte sono infatti intimamente legati tra loro… artisti che usano la fotografia, o fotografi che concepiscono il loro lavoro come lavoro d’arte[28], artisti che scrivono su critici che fotografano e che “espongono” la loro opera[29].

 

In ricordo della nostra amicizia[30].

 

Luca Scarabelli[31]

Dicembre 2014

 



[1] Il testi in corsivo (e le corrispondenti note che indicano il libri da cui provengono), sono  citazioni, frammenti, frasi, parole, estrapolate da libri (quelli presenti nella mia libreria) scritti da Elio Grazioli, critico d’arte, curatore di mostre, esperto teorico di fotografia. Ecco perché anche le sue parole.

[2] Luigi Ghirri, L’opera aperta, dattiloscritto, 1984.

[3] Pag. 243. “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[4] Pag. 21, “Piero Manzoni”, Bollati Boringhieri.

[5] Pag. 2, “Corpo e figura umana nella fotografia” Bruno Mondadori.

[6] Pag. 243, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[7] PAg. 341, “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[8] Pag. 103, “Corpo e figura umana nella fotografia” Bruno Mondadori.

[9] Pag. 75, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[10] Pag. 5, A+L, numero sette-primavera 2006.

[11] Pag. 165, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[12] Pag. 27, “La collezione come forma d’arte” Johan & Levi.

[13] Pag. 143, “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[14] Pag. 55,  “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[15] Pag. 367, “Andy Warhol”, marcos y marcos.

[16] Pag. 303, “Kurt Schwitters”, marcos y marcos.

[17] Pag. 4, A+L, numero sette-primavera 2006.

[18] Pag. 110, “Anni ottanta (e oltre): le ragioni dell’arte”, in Il confine evanescente, Electa.

[19] Pag. 111, “La collezione come forma d’arte” Johan & Levi.

[20] Pag. 50, “La collezione come forma d’arte” Johan & Levi.

[21] Pag. 274, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[22] Pag. 215, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[23] Pag. 292, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[24] Pag. 292, “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[25] Pag. 125, “La polvere nell’arte”, Bruno Mondadori.

[26] Pag. 3, A+L, numero sette-primavera 2006.

[27] Pag. 366, “Andy Warhol”, marcos y marcos.

[28] Pag. 300, “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[29] Pag 300, “Corpo e figura umana nella fotografia”, Bruno Mondadori.

[30] 23-5-2013 Dedica autografa di Elio sul libro “La collezione come forma d’arte” Johan & Levi.

[31] Artista e docente …inventore di percorsi fra i segni, semionauta che mette le forme in movimento (cit. da Il radicante, Nicolas Bourriaud), per il mondo dell’arte sempre in surplace. Provetto ciclista.